Sono 112 le vittime di femminicidio nel 2020. E da gennaio 2021 a oggi sono già 14. Ne ho letto i nomi e, subito, un nodo alla gola. Si nasce, si cresce e si muore ammazzate dal proprio compagno, da un familiare, insomma da qualcuno di cui ti fidavi e che forse amavi. Troppe parole sono state spese sui femminicidi ma non saranno mai abbastanza.
La cultura nella quale viviamo è “contro le donne”. Non è una esagerazione ma è risaputo che viviamo in pieno patriarcato e non ce ne accorgiamo. Il frutto culturale è ampiamente dimostrato dal linguaggio sessista che perseguita ancora le donne e l’involuzione culturale e sociale alla quale assistiamo giorno dopo giorno. La politica, almeno quella italiana, che dovrebbe essere la madre di tutte le battaglie per ritrovare piena giustizia ed equità di genere, è la realtà che più sottovaluta e sottostima le donne che sono costrette a gridare di volere le quote di genere di rappresentanza altrimenti non c’è aria di essere elette. E sulle quote di genere si apre ogni volta la battuta, sessita, anche da parte delle donne che non vogliono essere poste sotto un velo di protezione. Davanti all’evidenza dei numeri ridottissimi delle donne che ci rappresentano nel mondo della politica, del giornalismo, delle tante istituzioni marchiate dalla presenza maschile, non rimane che farsi sentire, con ogni mezzo a disposizione e abbattere tutti gli alibi all’assenza delle donne. E a proposito della parola “femminicidio” ci sono voluti anni, con migliaia di donne morte per mano degli uomini, per accettarla, perchè questa parola non serviva, visto che l’omicidio comprendeva tutto. “La ragione della resistenza di forze politiche e mezzi di informazione a usare una parola apposita – scrive Michela Murgia – era comprensibile: accettare di nominare diversamente il fenomeno significava doversene occupare con leggi e linguaggi specifici che andassero alla radice culturale del problema.”
E continua la Murgia, in un post scritto in seguito alla morte di Antonietta Gargiulo e delle sue due bambine per mano dell’uomo da cui si stava separando, il loro padre: “Servono soldi ai centri antiviolenza, i soli che prendono sul serio la paura delle donne ancora vive, progetti di formazione scolastica contro gli stereotipi di genere che ancora costruiscono il maschile possessivo ed esigono il femminile remissivo. Serve educare i giovani all’addio inevitabile, alla sconfitta che fa parte dell’umano, alla perdita vissuta con responsabilità, in modo che l’unica via di risoluzione al dolore non sia più la distruzione di quello che ci fa soffrire. Leggete i programmi elettorali. Ditemi queste cose dove le trovate“.