Questione o meglio, ingiustizia meridionale

Due Italie, due popoli. Se la politica non comprende questo, con la corruzione e il perpetrarsi di investimenti dissennati al nord, dimenticando la fascia più debole della popolazione che vive nel meridione, non ha capito niente e continuerà a perdere. Non solo le elezioni ma il Paese.

“La natura ha fatto della Sicilia un paradiso terrestre: ragione sufficiente questa perché la società umana, divisa in classi opposte ne facesse un inferno”. (Frederich Engels).

Sono passati quasi due secoli e la questione meridionale, la più grave ingiustizia del nostro Paese, è rimasta al palo. 

La definizione di “questione meridionale”, venne usata per la prima volta nel 1873 da un deputato al parlamento italiano, intendendo con questo termine la disastrosa situazione economica e sociale, in cui versava il mezzogiorno italiano all’indomani dell’annessione forzata al Regno d’Italia nel 1861. L’unificazione indusse gravi conseguenze di ordine economico con l’improvvisa apertura di un mercato unico nazionale e l’introduzione del regime fiscale di Torino. E da quel momento il Sud è sempre più in caduta libera. 

Nel 1861 il numero dei fusi impegnati nell’industria tessile era di 70mila al sud (15% del totale nazionale) e di 300mila al nord, mentre in Francia era di 5 milioni e in Inghilterra di 30 milioni. Nel meridione venivano prodotte 1.500 tonnellate di ghisa contro le 17mila del nord, mentre in Germania ne venivano prodotte 600mila e in Inghilterra 3,7 milioni. 4 milioni di persone emigrano dal nord al sud tra il 1951 ed il 1971 tanto che in questa data il 17% della popolazione residente al nord risulta nata al sud. 

Tra il 1983 ed il 1988  il Pil procapite meridionale si riattesta al 57% di quello del nord e la quota dei disoccupati supera nuovamente il 50% del totale nazionale. Nel 1988 la spesa pubblica diretta al Mezzogiorno scende attorno ad un  misero  25% del totale nazionale.

Se la politica di lacrime e sangue degli anni ’90 è stata deleteria per tutto il proletariato italiano, per quello meridionale è stata devastante. Nel 1993, ad esempio, i chilometri di ferrovia attivi scendono sotto il livello del 1938  (7.598 km contro 8.871).

La Svimez, associazione per lo sviluppo dell’industria meridionale, dopo aver celebrato i 242mila nuovi posti di lavoro creati tra il ’99 ed il 2000  (di cui il 60% precari), deve ammettere a denti stretti “la persistente gravità del dualismo territoriale italiano”: il 75% delle famiglie povere si concentra al sud, la disoccupazione è al 18% contro la media nazionale del 4% e tocca il 49% per i giovani sotto i 24 anni, mentre 450mila famiglie meridionali non vedono nemmeno un occupato tra le proprie fila. Nel 2002 l’emigrazione dal sud verso il nord ha raggiunto di nuovo la punta di 180mila persone. Tra il 1951 ed il 1962 solo il 15% degli investimenti industriali nazionali è rivolto al sud, mentre nel 1973 questa cifra si aggira attorno al 44%. 

Si comprendono allora le parole di Gramsci del 1916: “Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali”.

 

 

 

 

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